Epstein…scorreva lo sguardo sugli aerei come se li conoscesse uno ad uno. Disse “la cosa curiosa è che i principi sono gli stessi per tutti, spesso anche le dimensioni e i rapporti tra le dimensioni, eppure ognuno ha un carattere suo, un difetto suo, perfino una voce.”
D. Del Giudice, Atlante occidentale, Einaudi 1985, p. 11
Io non sono uguale. Non sono uguali, tra loro, le immagini e non sono uguali le parole che le ancorano al loro significato. Io, una cosa, un lavoro, un’attività, un’organizzazione e i suoi componenti, un territorio e i suoi abitanti, un’impresa, una penna e una collezione di penne, un’auto, un bosco, un cibo non sono uguali a ciò che gli è simile. Niente è uguale perché “la verità delle cose è sempre nell’anima” (Platone). È questo il progetto: mostrare l’anima delle persone, delle cose con un ritratto d’artista, una foto, con un racconto, una storia, esporla in una mostra, conservarla in un libro, celebrarla in un evento, renderla disponibile nella rete.
Io non sono uguale è un progetto di ricerca sull’immagine e la comunicazione. Il progetto prende avvio da alcune domande che gli autori si vanno facendo a proposito della fotografia nell’epoca dei selfie, delle banche immagini, della riproducibilità infinita e della scomparsa dell’originale.
Che cos’è oggi la fotografia? Può ancora vivere in autonomia o è messa ai margini da un eccesso di immagini? Può ancora svolgere un ruolo di conoscenza, rappresentazione, costruzione di senso? Può essere capace di rendere un servizio al soggetto ritratto?
Con uno slogan, necessariamente riduttivo: c’è una differenza tra essa e i selfie?
A definirla ci può aiutare la similitudine tra il linguaggio parlato e il linguaggio scritto. Scripta manent dicevano gli antichi, i selfie volant; la fotografia e la parola scritta permangono se, insieme, colgono l’identità del soggetto e sono capaci, in un flusso comunicativo, di trasformarsi in messaggio e questo in esperienza.
Quindi la risposta all’insieme delle domande è provvisoriamente positiva, ma condizionata.
La fotografia può vivere, e non sopravvivere, se riesce a lavorare nel contesto più ampio della comunicazione, ottenendo un reciproco vantaggio. Per la comunicazione quello di superare la soglia del rumore, del linguaggio iconico, dell’omologazione; per la fotografia, quello di ritrovare un luogo proprio, distinto, perseguendo uno scopo sia estetico che conoscitivo.
Già alcuni anni or sono, prima dell’esplodere dei selfie e dei social (quindi un’era fa), Manfredo Massironi,
insigne studioso di psicologia cognitiva e artista, co-fondatore, negli anni ’60, del Gruppo N (enne), in un suo saggio affermava che il bello, con i concetti di equilibrio, proporzione e misura, ha caratterizzato l’arte per secoli e oggi è stato completamente assorbito dalla produzione e dal mercato delle merci, dalla moda, dallo spettacolo, dalla pubblicità. Ha così liberato l’arte da qualsiasi vincolo normativo dove, possono essere consumate le provocazioni, le denunce, le critiche. Massironi aggiunge poi che “l’arte rimane laboratorio che alimenta i processi di comunicazione.” 1
Io non sono uguale è quindi un progetto di ricerca abita uno spazio, prendendo spunto dall’idea di Massironi, tra l’Arte e la Comunicazione.
Uno spazio per niente angusto, ma che, invece, appare assai fertile dove ricerca, bellezza e autenticità realizzano il loro evento. Uno spazio di indagine e lavoro in cui, come Tomas in Blow up giunge alla soluzione del giallo solo per successivi ingrandimenti. Resta tuttavia la consapevolezza che tale ricerca non può uscire da una dimensione mitologia.
Ma lo scopo di un percorso di ricerca è quello di trovare. In altri termini un’ipotesi di lavoro va verificata, messa alla prova.
Io non sono uguale, quindi, deve individuare soggetti su cui verificare la presenza dello spazio tra arte e comunicazione su cui applicare le premesse progettuali.
– M. Massironi, L’Osteria dei Dadi Truccati. Arte, psicologia e dintorni, Il Mulino, 2000, p.29