E-commerce e acquisto d’antan

E-commerce e acquisto d’antan

E-commerce e acquisto d’antan

Il commercio di prossimità nel tempo dell’e-commerce

Incontrare per scambiare: in discussione la forma urbana e il ruolo del negozio

Che fine faranno, dopo la pandemia, i negozi di prossimità? Siamo all’ultimo atto del commercio cittadino così come lo abbiamo conosciuto per secoli? Un commercio che ha dato identità alle nostre città, grandi e piccole, che fanno dell’Italia un unicum mondiale della “forma urbana”?

Restando, agli ultimi cento anni, i piccoli negozi hanno subito costanti attacchi.
Il primo è durato un lungo arco di tempo. E’ iniziato già negli anni ’30 ed è stato portato da parte dei grandi magazzini delle capitali europee e dalle vendite per corrispondenza negli Stati Uniti, nei decenni a seguire dalla loro diffusione e dai supermercati che hanno modificato significativamente la distribuzione alimentare all’interno delle città.

Il secondo attacco è stato condotto dalla stagione (nonostante le difficoltà, ancora in corso,) dai centri commerciali, affiancati dagli outlet, una stagione ancora attuale, nonostante le difficoltà.

Il terzo attacco è quello in corso, ed è molto, molto insidioso, si tratta, appunto, dell’e-commerce.
I numeri di quest’ultima forma distributiva erano, già prima della pandemia, in crescita costante, seppur contenuta in Italia rispetto agli altri Paesi.
La pandemia e i conseguenti lokdown hanno fatto esplodere il fenomeno e con esso il fatturato dell’e-commerce. Non è andata male, tutt’altro, all’intera filiera dell’alimentare.

E gli altri? Le mercerie, i bar, l’oggettistica, l’abbigliamento, i piccoli gioiellieri, le pasticcerie, le profumerie e gli articoli da regalo solo per citare alcune delle tipologie che animano le città. Chiusure totali o a intermittenza e fatturati a picco!
Ce la faranno a ripartire? E quando potranno farlo che situazione troveranno? Ci sarà ancora un mercato per loro?

 

Le grandi catene H&M, Gap, Zara ci stanno pensando. In un interessante articolo per Panebianco News, Giulia Sciola ci dice che “i negozi si dovranno convertire in hub a servizio dell’e-commerce, chiamati anche dotcom” e ci informa che H&M ha già deciso un riassetto del proprio network. “Pensiamo che il ruolo degli store debba cambiare – dice Karl-Johan Persson, chairman di H&M – da punti vendita in hub logistici per le consegne, per il ritiro e il reso delle merci.”

Insomma da negozi a magazzini. La differenza è chiara ma per pensarla meglio interpelliamo l’etimologia: si trasforma un luogo in cui non si ozia ma si fanno cose, si lavora, in un luogo in cui si deposita, si mette giù.

Prospettiva avvincente? Un “cambio d’uso” capace di assorbire l’intera rete del piccolo commercio? Non proprio.

Tuttavia le opinioni sul futuro del commercio al dettaglio non si esauriscono qui. Un’ampia analisi la fornisce un interessante volume scritto da Wijnard Jongen ed edito in Italia a cura di Netcomm, il consorzio leader per il commercio digitale italiano, dal titolo volutamente provocatorio o paradossale “La fine dello shopping on line. Il futuro del commercio in un mondo sempre più connesso.”

Ci racconta di come l’e-commerce ha intaccato il commercio tradizionale ma anche di come le interazioni di un cliente onlife stanno costruendo un nuovo modello dove “le sinergie tra tecnologia e tocco umano” producono esattamente il valore aggiunto che i clienti onlife di oggi stanno cercando”.

Parlando delle tecniche di costumer intimicy, afferma che “oggi più che mai i clienti sono attivi, anche perché hanno informazioni molto più rilevanti sui beni, sui servizi a sulle aziende che intendono usare.” E vogliono il “tocco umano” di un costumer care in carne e ossa, “svincolato” da script multilivello e dall’obbligo di eseguire protocolli definiti.

Una rivalutazione, insomma, del fattore umano in relazioni onlife, fisiche e digitali insieme. Lo vuole il cliente spinto dalla maggior dose di informazioni e dalle sue esigenze, anche esperienziali unitamente alla “volontà di conversare sui beni e servizi che desidera acquistare.”

Tutto a posto quindi? Tra le necessità del “tocco umano” e la trasformazione in hub digitali per il commercio elettronico, anche i negozi di prossimità troveranno, alla ripartenza, una nuova mission e un mercato florido?

A noi pare di no, non ci sembra che le cose stiano proprio così.

Le difficoltà sono evidenti anche a W. Jongen che dedica l’ultimo capitolo del suo libro ai problemi che pone la rete, “il lato oscuro, dell’attuale sistema capitalistico.” Per esistere sembra infatti che non sia possibile “non far parte dell’ecosistema dei giganti tecnologici”, mentre il commercio tradizionale ha “difficoltà ad affrontare le nuove realtà.”
Quindi non se ne esce, almeno fino a quando la discussione rimane tutta interna al tema del commercio e questo non venga invece ricollocato in un contesto, quello cioè dove opera, vale a dire la “città”, grande, media, piccola, o anche singolo quartiere. Questo è il suo contesto, il suo ambiente, fatto di rete digitale (sempre presente) e di fisicità.
Come saprà evolversi la città, il contesto fisico? Agevolerà la costruzione di un agglomerato di cellule individuali e separate, la cui unica connessione è la rete digitale oppure potrà essere anche qualcosa di diverso?

Due concetti su cui riflettere ce li fornisce Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab del MIT, in un articolo apparso a commento delle manifestazioni verificatesi all’indomani dell’uccisione di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis. Piazze, monumenti e parchi – ci dice Ratti – sono la misura della società”, a questi noi potremmo aggiungere alcuni servizi tra cui il piccolo commercio. Essi sono lo “Spazio pubblico” che, ad avviso di Ratti, presenta una caratteristica unica, quella della “Inevitabilità”, del tutto assente nella rete, caratterizzata, invece, dal concetto opposto, quello della “Omofilia”.

Che cosa sia l’Inevitabile lo spiega così. Un luogo non individuale, dove facciamo esperienza di uno “spazio conteso” (se parcheggio io non parcheggi tu), di un “teatro di conflitti” (incontro l’altro, quello che non la pensa come me, insieme a quello che la pensa come me). Non uno spazio idilliaco, ma luoghi “in cui individui di estrazione e di origine diverse convergono” e possono diventare “spazi di comprensione e riconciliazione.”

L’Omofilia, all’opposto, caratteristica della rete, tende, incoraggiata dagli algoritmi, a far incontrare gli “uguali”, gli “omogenei” (al massimo il “nemico”, ma è la stessa cosa, serve per l’insulto, ha la funzione del barbaro alle frontiere) divenendo “casse di risonanza ideologica”.

Certo, per una buona “inevitabilità”, integrante, conta molto l’assetto urbanistico che deve essere pensato per l’incontro e l’interazione e conta il substrato culturale e la presenza di “cittadini disposti ad interagire gli uni con gli altri.”

“Inevitabile, quindi, anche per il piccolo commercio, è incontrarsi e non stare a casa. Un’opzione, quest’ultima di cui siamo, eufemisticamente, stanchi.

Ecco, allora, cosa deve fare il “Pubblico”, anche per il piccolo commercio: rendere attivo l’Inevitabile, ed ecco, invece, cosa deve fare il “Privato” (negozi di prossimità), svolgere una funzione pubblica. E infine, cosa deve fare il terzo attore, il cittadino consumatore? Incontrare per scambiare.

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