Covid-19 e le Fiere
Fiere sì, Fiere No, Fiere Come
Le fiere, così come il turismo, la ristorazione, il commercio di prossimità sono tra le attività più colpite dalla pandemia.
I numeri, come si può intuire, sono impressionanti. Il settore valuta un crollo del fatturato tra il 70 e l’80% e, per affrontare la crisi, avanza al Governo, oltre a sgravi fiscali, interventi a fondo perduto per circa 400 milioni, cifra che corrisponde, incrociando le dichiarazioni di vari enti fieristici, più o meno, al 50% delle perdite di fatturato registrate nel 2020 rispetto al 2019, anno che le aveva viste in crescita.
Inoltre, gli eventi digitali, le fiere virtuali con cui in quest’annus horribilis, gli enti fieristici hanno tentato di dare una risposta positiva nell’emergenza del lockdown a qualcuno sono apparse concorrenziali, forse addirittura “sostitutive” delle fiere “reali”.
Tra lockdown e digitale siamo cioè di fronte alla fine delle fiere o riusciranno a risollevarsi? A trovare una propria specifica mission e nuovi format?
Faccio una breve digressione di cui mi scuso in anticipo, ma ritengo sia un utile esercizio quello di buttare l’occhio lontano nel tempo, là, da dove veniamo.
Si può ritenere che le fiere portino in sé un “archetipo”, quello cioè delle antiche fiere cittadine, territoriali, paesane [Archetipo non nel significato di modello, ma come “immagine primordiale”, impronta, traccia incisa sul DNA]. Tale archetipo è costituito da tre elementi: la chiesa (religione, nel senso di legame comune – ecclesia, community); le giostre e la balera (Networking); il foro boario / mercato (business).
Andiamo ancora un po’ più indietro e facciamo un bel giro turistico nella splendida Delfi, nel tempio di Apollo, ad ascoltare l’Oracolo (colui che dà i numeri, Oracle – database). Lungo la strada che conduce alla sommità del colle ammiriamo i templi (stand) – alcuni grandi, altri più piccoli, alcuni lussuosi, altri ancora più modesti – delle città della Grecia, il mondo di allora. Lì, in quei luoghi (stand) le città esibivano il loro rango, lì negoziavano, facevano affari, missioni diplomatiche (discutere con il certificato di rappresentanza della casa madre). Infine, giunti sulla sommità, troviamo lo stadio di Delfi, il meglio conservato della Grecia antica, lì si tenevano i giochi.
Mi sono già scusato della digressione ma voleva essere una sorta di gioco per chiederci: la fiera virtuale risponde a questi tre elementi:
1. legame religioso (costruzione e conferma di una community);
2. scambio commerciale/missione diplomatica (business);
3. relazioni in condizioni di svago (divertimento)?
La domanda è retorica e la risposta negativa è implicita.
Abbandoniamo il passato e torniamo all’oggi per constatare che così la pensano anche gli operatori del settore fieristico. Forse hanno interiorizzato l’archetipo.
Che l’evento fisico non sia sostituibile dal digitale lo afferma con forza Claudio Luti, Presidente del Salone del Mobile di Milano, il quale, oltre alla presenza fisica sottolinea l’importanza della localizzazione, vale a dire il bisogno di un luogo, della sua tradizione, della sua vocazione in cui l’evento accade. “Non ci può essere il Salone – dichiara Luti – senza Milano. Anche se introdurremo nuovi servizi digitali, nulla sostituirà l’esperienza diretta”. Il Salone va vissuto in prima persona: “è un’emozione e una sensazione a fior di pelle che non ammette surrogati.”
“Andare per fiere – conclude – non è solo vedere, vendere o acquistare nuovi prodotti, ma è soprattutto incontrare colleghi, discutere, vivere e condividere l’emozione, capire come si muove il mondo.”
Sì, ma il digitale come entra? In tanti modi.
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Entra nella progettazione e nella comunicazione dell’evento fieristico (non solo social, web ed e-mail marketing, ma anche luoghi interattivi in cui costruire, con l’intervento dei protagonisti, senso e significato);
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entra nei processi di costruzione della community di riferimento (momenti di incontro di verifica e step di avvicinamento all’evento);
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entra nell’arricchimento dei contenuti in particolare convegni e seminari, permettendo apporti altrimenti impossibili;
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entra come supporto alla spettacolarizzazione di contenuti esperienziali (realtà aumentata, immagini in 3D);
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entra come servizi aggiuntivi agli espositori e ai visitatori (ambienti digitali avanzati e servizi dating);
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lo faranno entrare gli stessi espositori, entra come comunicazione orale e visiva capace di conservare memoria e visibilità (registrazione di eventi e trasmissione/collocazione in rete; digitalizzazione di contenuti avanzati).
Sta quindi agli organizzatori attrezzarsi e sperimentare offerte aggiuntive della loro tradizionale proposta fieristica, forse abbandonando costosi gigantismi e optando per numeri più contenuti.
Ampio, almeno per un po’ di tempo, è lo spazio di sperimentazione, avendo non solo i servizi digitali come nuovi elementi di integrazione ma anche l’orizzonte della sostenibilità, per costruire, con tentativi ed errori, i format fieristici dei prossimi decenni.
Probabilmente non saranno le fiere ibride (termine fuorviante, anche se ormai entrato nel lessico) come spesso si sente ripetere descrivendo una convivenza tra elementi complementari la realtà digitale da un lato e quella fisica dall’altro, immaginiamo invece che saranno un tutt’uno, saranno cioè fiere onlife, dove il digitale entra giocoforza come elemento dell’evento per il suo miglior successo.
Per finire, se diamo ascolto ad alcune percezioni, si sente in giro un bisogno, quasi una pulsione, a incontrarsi di nuovo, a scambiare valori e umanità. Se tutto ciò è giusto si può allora anche pensare che, finito l’isolamento, le fiere potranno avere un un rimbalzo, anche forte. Sarà, allora, l’offerta all’altezza della domanda?