L’artificio svela il soggetto
Barbara Codogno
Critica e scrittrice
Ho posato raramente per qualche fotografo e sempre con grande imbarazzo, anche se mi piacerebbe molto un mio ritratto fotografico. Guardando le foto esposte in questa mostra mi sono subito sentita chiamare in causa. Ancora prima di approfondire il progetto colto che Francesco Nosella e Walter Ponchia hanno strutturato insieme, unendo le parole alle immagini, consuetudine questa che pratico per lavoro e soprattutto per passione.
Guardando alle dodici grandi foto a colori, di rara perfezione formale, mi sono chiesta quali fossero gli oggetti che meglio mi rappresentino, in che contesto avrei voluto parlare di me, del mio amato lavoro.
Senz’altro vorrei un quadro alle mie spalle, un libro tra le mani, i miei gatti intorno. Ma anche la scrivania, i tantissimi foglietti sparsi ovunque su cui appunto nevroticamente le cose che ho da fare. Lo studio perennemente in disordinbe ma anche l’albero che quasi mi entra dalla finestra. E la ghiandaia che ogni tanto intravedo tra le foglie. La mia anima, insomma.
Per raccontare di me ho dovuto quindi ricostruire il mio ambiente.
Di fotografia ne mastico abbastanza e devo dire che la poetica dello scatto rubato è chimera piuttosto abbagliante: nel tempo è senz’altro servita a creare attorno al “personaggio divo fotografo” quell’allure che lo vuole unico, staccando nettamente il suo sguardo autoriale dal nostro guardare comune.
Di scatti rubati era un esperto Doisneau che infatti costruiva meticolosamente le sue foto come in un set. Pensiamo alla sua foto più celebre, il famoso bacio: due innamorati sostano immobili, allacciati l’un l’altro, mentre tutto intorno si muove sfuocata una Parigi che va di fretta, incurante di questa evidente passione.
Ecco: proprio quello che sembra essere un momento magicamente “rubato” è invece, per ammissione dello stesso fotografo, uno scatto pensato, progettato, costruito ad arte: una scena inventata di sana pianta. Un artificio così perfetto da sembrare naturale. L’immagine infatti riesce a disancorare lo spazio-tempo per mostrarsi nella sua verità eternabile.
Questa introduzione per dire che una foto tanto più vuol raccontare il soggetto ritratto, tanto più deve ri-costruirne la verità. Usando quindi una serie di “trucchi” che però, quando il fotografo è bravo, svaniscono improvvisamente. La scena si sgombra e quello che emerge è solo il protagonista.
Una strana alchimia: creare la scena, costruire il set, agganciare il soggetto alla sua “rappresentabilità” per poi lasciar riaffiorare soltanto il protagonista, che ha assorbito tutto il contesto. Nell’artificio il soggetto si svela, mostra la sua natura.
Sarebbe più facile se a parlare fosse la musica. Guardando una partitura vediamo le note tracciate per ogni singolo strumento. Sappiamo che ora sta suonando il violino, che l’oboe si inserisce, che il piano trionfa. Eppure, ogni singolo strumento concorre a realizzare quella precisa melodia, sparisce nella complessità di un unico suono. Eppure, noi continuiamo a sentire il violino, l’oboe, il pianoforte.
Così con l’immagine: la complessità della sua costruzione sparisce rispetto al disegno complessivo che punta sul soggetto, contribuendo allo stesso tempo ad esaltarlo.
Le dodici grandi foto che fanno parte del progetto “Tra Arte e Pubblicità” raccontano persone ma anche il loro lavoro, il loro tempo e il luogo che abitano: la città. Quella che abitiamo -e amiamo- anche noi. Fatta di grandi piccole storie che ce la rendono unica.
Il titolo della mostra è quanto mai “fotografico”. Per spiegarvi perché devo raccontare ancora di Doisneau.
Il fotografo francese, innamoratissimo della sua città, Parigi, lavorava alla Renault, si occupava di comunicazione. Le sue fotografie, studiate e commerciali, servivano appunto a raccontare un prodotto. Lui lo faceva con quella sensibilità che hanno solo i grandi ma non rinnegò mai questo suo primo impiego.
Gli fu utilissimo anzi, anche per realizzare un importante progetto – noterete subito le analogie.
Nel 1955 Doisneau incontra un giornalista, anzi un comunicatore come lo chiameremo oggi: Robert Giaraud. I due sono amanti delle piccole taverne, dei bistrot fumosi e insieme compongono il libro “Le vin des routes”, il vino delle strade.
Raccontano le storie della città, in maniera molto anticonformista e trasversale, dei suoi avventori e avventurieri, dei solitari e tristi, delle ragazze allegre e degli anziani. Una fotografia corale che attraverso il vino parla della città, ma sempre cesellando ritratti di singoli individui, che della città diventano quindi un’icona.
Nosella e Ponchia, i due autori padovani che firmano – uno con l’arte delle parole, l’altro con l’arte della fotografia – questa bella mostra, nel saggio “Io non sono uguale. Bellezza e irriducibilità del singolo” scrivono di aver voluto raccontare della singola persona e dell’ambiente: quello del suo sé, dove si gioca l’identità.
E attraverso questi dodici scatti perfetti vediamo infatti l’anima identitaria di una città che mostra il suo universo grazie ai ritratti di Tarcisio Berton, Ruggero Braga, Corrado Falco, Domenico Cortes, Giampietro Freo, Paolo Gozzo, Alberto Grinzato, Romano Lovison, Emanuela Marchetti e Luigia Panizzolo, Lorenzo Michielan, Luca Tomasi, Elisabetta Salvalaggio e Deborah Scorzelli.
Una città che sa di vino, di piazze, di arte, di storie famigliari, di mestieri, d’Oriente… Un melting pot culturale che rende speciale il luogo che descrive; così come sono speciali tutte le persone che lo abitano. Si tratta dell’amata aria di casa.